Un’intervista ricca di molti contenuti quella con Pietrina Atzori che partendo dal suo lavoro di artista tessile, mi ha accompagnato in un lungo excursus attraverso tecniche, materiali, territorio, comunità. Con i piedi ben piantati nella sua terra sarda ma lo sguardo che vede lontano. Un’artista che sa raccogliere dal passato e operare per il futuro.

Io: Sei sarda e per di più del borgo di San Sperate, paese-museo da più di mezzo secolo. Quanto ha influito sulle tue scelte artistiche?
PA: Nascere e vivere a San Sperate ha influito tantissimo. Quando sono nata in questo paese era in atto un fermento culturale e artistico, iniziato appunto negli anni sessanta, ad opera di un importante e straordinario scultore, oggi non più tra noi, Pinuccio Sciola.
Sardo di nascita e di San Sperate, come me, ha condotto una monumentale ricerca durata tutta la vita che lo ha portato a sovvertire concetti indiscussi sulla pietra scolpendola, manipolandola, forgiandola fino ad approdare alla “pietra sonora”. Tutta la sua vita di artista è stata condizionata dalla sua ricerca. Poiché le sue opere non erano facilmente trasportabili, partecipare alle esposizioni era limitato dallo spostamento tutt’altro che semplice dei suoi monoliti; perciò ha presto trasformato questo limite in una opportunità: “Se io non posso andare dagli altri farò in modo di portare gli altri qui da me”, gli sentii dire in alcune occasioni.
Questa condizione originaria unita ad un grande, immenso bisogno di fare arte ha fatto arrivare in 50 anni a San Sperate numerosissimi artisti da tutto il mondo: oltre a Sciola, molti nomi di chiara fama come Aligi Sassu, Costantino Nivola, Pablo Volta, Elke Reuter, Diego Asproni, Anglo Pilloni, Raffaele Muscas, Rosaria Straffalaci, tanto per citarne alcuni, e altri meno conosciuti ma altrettanto bravi hanno realizzato murales di grandi dimensioni sulle case, installato sculture di pietra, di ferro ed altri materiali (ad oggi si contano 600 murales e centinaia di sculture disseminate in tutto il centro abitato) in un movimento che è ancora vivo e attivo. Tanti sono stati gli artisti di ogni arte – teatro, cinema, musica – che venivano ospiti da Pinuccio, per esprimersi artisticamente, scambiarsi esperienze e lasciare un segno del loro passaggio.
Tutto questo era offerto a tutta la comunità e da essa partecipato: tutta la comunità,infattim si è trovata coinvolta in una delle prime forme di arte ambientale e pubblica in Italia. In questo “ambiente” ogni giorno nel paese succedeva qualcosa, ogni giorno il paese era nuovo e diverso, ogni giorno potevi uscire di casa e fare incontri che ti arricchivano dentro e spingevano il tuo sguardo oltre l’orizzonte.
Io sono cresciuta in questo clima. Da qui parte la mia scintilla.
Non ho condotto studi accademici ma ovviamente ho molto studiato – e studio tuttora – perché ho sempre considerato seriamente il fare arte. Il mio paese natale e tutta la regione sono un continuo rimando all’arte, anche quella antica – basti pensare ai bronzetti nuragici, alle sculture megalitiche come i nuraghi, le tombe dei giganti, i dolmen, menhir ecc. – disseminata in tutta l’isola, tanto che in ogni momento puoi inciampare in una testimonianza del nostro passato. Tutte queste presenze hanno costituito per me la culla e l’energia per la mia pratica d’artista.
Probabilmente all’appartenenza all’isola devo due caratteristiche della mia personalità: la curiosità per ciò che sta oltre il confine e il saper fare delle mani, che in una terra come questa era fondamentale dato che, fino ai primi decenni del ‘900, tutto veniva prodotto in loco.
La mia comunità e il modo di vivere, la mia fervida immaginazione, la ricchezza di espressioni artistiche intorno a me fin da piccolissima mi hanno naturalmente indirizzato alla pratica dell’arte.

Io: Radici, territorio, comunità: tre termini che caratterizzano molta della tua ricerca artistica. Che valore e che significato hanno per te?
PA: Per me è vitale sentirmi radicata al terreno, camminare a piedi scalzi, sentire che tutto il mio essere poggia sul suolo. Appartengo ad una comunità contadina. Ogni cosa necessaria diventava disponibile per attingervi: valori, pratiche, attenzioni, conoscenze, riti e rituali imprescindibili per la vita. Sono anche una donna contemporanea che ha vissuto, come tanti di noi, grandi cambiamenti e quello che maggiormente mi inquieta oggi è la mancanza di identità verso cui ci stiamo muovendo. I legami con la tradizione e la natura sono recisi. Qualunque “valore” duraturo è negato. Nella più ampia cultura occidentale, di cui siamo parte, è esaltata la provvisorietà, la precarietà, l’effimero in tutti gli aspetti dell’esistenza: il che è davvero un controsenso.
Nel mio lavoro d’artista le radici sono riconoscibili nei materiali naturali che utilizzo: lana, cotone, lino, seta, canapa. Non mi limito ad utilizzarli, spesso li produco; ciò vale specialmente per il filo di lana. I colori li ottengo a partire dalle piante del territorio in cui vivo. Radici sono anche le numerose tecniche, in particolare quelle tessili, che ho imparato a praticare molto bene per poi, solo dopo, “decostruirle” in modo espressivo, spesso in modo non convenzionale ma più divertente e funzionale alle mie esigenze comunicative. Infatti solo dopo aver studiato, appreso e praticato i fondamenti ho potuto costruire un mio codice espressivo attraverso i materiali tessili. Nel mio lavoro quindi materiali e tecniche rappresentano le radici che manipolo, trasformo e impiego per costruire una riflessione ed una narrazione intorno ad alcuni temi della nostra contemporaneità.
La comunità è il luogo in cui mi identifico; la storia del mio paese e della mia regione incidono e influenzano il mio sguardo. La comunità è un po’ come la mamma: è il luogo in cui trovo protezione, accoglienza. Talvolta può anche risultami stretta ma è sempre lì a ricordarmi chi sono e da dove vengo. Dipende sempre da come guardi le cose.
Nel tempo ho allargato il mio orizzonte andando a scoprire altri spazi, altri luoghi per conoscere – e riconoscere – pratiche che erano anche le mie ma in nuove modalità di organizzarsi, di esprimersi e di codificare il proprio gruppo. Ciò che più mi incuriosisce è vedere come ogni comunità si rapporta con la sua identità: è lì che trovo sovente ispirazione per il mio lavoro.
Spesso essa si caratterizza in funzione delle risorse del territorio e il territorio condiziona la vita delle persone. Molte tracce del passato sono ancora rintracciabili nel presente, ma di altre si è persa la memoria; un vero peccato perché con essa si perde anche l’identità.
Non penso al passato come valore nostalgico ma conoscerlo per fruirne nel presente proiettandolo nel futuro credo sia importante. Mi spiego con un esempio: se in passato una comunità fondava la sua sussistenza sull’allevamento delle pecore e da essa traeva tutti i benefici possibili, oggi la stessa comunità se punta tutto solo sul latte o sulla carne abbandonando, ad esempio, la lana perde non solo questa produzione ma tutto un sapere che ha conseguenze non solo sulla perdita di quella risorsa ma anche sulla cultura di quella stessa comunità.
È importante sapere, poi, che l’attività pastorale è fondamentale per la cura e conservazione di un territorio: la sua perdita determinerebbe un progressivo e inesorabile abbandono delle campagne con conseguenti e irreparabili risvolti sull’habitat naturale e sull’uomo.

Io: Tra le prime installazioni ci sono i giardini “pensili”. Ci racconti cosa sono e quali messaggi veicolano?
PA: La lana è sempre al centro della mia ricerca. Nel 2010 le mie competenze nel campo delle fibre naturali erano già conosciute e già mi ero affacciata nel panorama dell’arte isolana con opere di “filo”. Così un giorno ho ricevuto l’incarico della direzione artistica per la realizzazione di una installazione diffusa nel quartiere antico di San Sperate. La missione era quella di portare il verde nelle vie storiche del paese utilizzando materiali naturali. Ho accettato con entusiasmo e ho realizzato dei contenitori di lana sarda capaci di accogliere piante e fiori per portare colore e natura nel grigiore urbano. Il materiale non mancava e l’opportunità era ghiotta per proporne un nuovo utilizzo. In questo modo avrei avuto l’opportunità di sollevare il problema del destino inaccettabile di questa risorsa naturale e rinnovabile che è tuttora classificata come rifiuto speciale. Nel giro di pochi giorni ho contattato gli abitanti del quartiere e insieme abbiamo realizzato un lavoro fantastico, specialmente con le donne. Partendo da prototipi di vasi di lana infeltrita ne abbiamo riprodotti un centinaio di diverse dimensioni per installarli nelle pareti delle case adiacenti alla strada, sui cancelli, sui balconi. Successivamente vi abbiamo messo a dimora fiori colorati ed essenze profumate. Tempo un mese, tutto il quartiere era abitato dal verde delle piante. Questa è stata la prima volta in cui ho impiegato la lana sarda in una installazione. Altri giardini verticali sono stati installati successivamente in altre città, tra cui Cagliari.
Da allora attraverso i giardini verticali con i contenitori di lana contribuisco al dibattito sempre più attento su questa risorsa e sui possibili impieghi alternativi all’ambito tessile. Valorizzare la lana avvantaggia l’allevatore che vi trova una fonte di reddito supplementare invece che un costo per lo smaltimento e conseguentemente può arginare l’abbandono del presidio del territorio. In modo più sintetico direi che attraverso i contenitori di lana si potrebbe usare meno plastica per esempio. Sono appunto un simbolo, una visione a mio avviso virtuosa per un futuro più sostenibile.

Io: La lana è, dunque, il materiale che prediligi tanto da saperla lavorare dal fiocco al tessuto. Come hai acquisito questo patrimonio di “saperi”. Oltre che di competenze tecniche?
PA: Fin da piccola ho fatto esperienza manipolativa e trasformativa del filo con l’uncinetto, la maglia, il ricamo, le stoffe, ecc. fino a diventare molto brava ma sempre meno divertita e appagata, tanto da abbandonare tutto per alcuni anni. Finché un giorno, incontrando alcuni cataloghi delle opere di Maria Lai, ho trovato la spinta che mi ha portato e mi porta tuttora a fare arte con questo medium. La Lai e i suoi telai hanno fatto riemergere il mio sogno nel cassetto di imparare ad usare il telaio. Guardavo al telaio come mezzo per produrre non tappeti e arazzi convenzionali bensì lo immaginavo come possibilità di realizzare tele in cui portare il mio immaginario, quindi applicato all’arte contemporanea. Alla prima occasione ne ho acquistato uno, l’ho ristrutturato da sola e, prese alcune lezioni di tessitura base da Adele Vigo – una bravissima artigiana piemontese – ho cominciato a muovere i miei primi passi. Ben presto si è presentato il problema dell’approvvigionamento del materiale da tessere, disponibile ma costoso. Così ho cominciato a pormi l’obiettivo dell’autoproduzione. La tradizione tessile sarda, non casuale visto la sovrabbondanza della materia prima proveniente dalla più diffusa attività pastorale d’Italia, mi era abbastanza famigliare e, pensavo, facilmente avvicinabile. Così non è proprio stato e per imparare a produrre fili di lana da tessere e tingere ho dovuto andare fuori dall’isola.
Ho conosciuto e contattato Eva Basile a capo del Coordinamento tessitori e ideatrice della manifestazione internazionale Feltrosa che ho frequentato per diversi anni. Lì ho imparato le basi della lavorazione della lana in particolare la lana cardata e la lavorazione del feltro. Sempre in quegli anni, tra il 2000 e il 2011 ho frequentato diversi insegnanti internazionali della fibra e del colore naturale applicato alle fibre come Vilte Kazlauskaite, fashion designer lituana, specializzata in infeltrimenti innovativi e moderni realizzati attraverso un’ampia varietà di materiali naturali; Leena Sipila, finlandese, docente di arti tessili e Membro del Arts Council of Central Finland; Irit Dulman israeliana ricercatrice e insegnante di stampa botanica; Jane Callender, inglese, nata e cresciuta in Malesia, ricercatrice, studiosa e insegnante della tecnica tradizionale dello shibori, delle tecniche ad ago e nell’uso dell’indaco naturale e ancora Sheila Rocchegiani e Ilaria Margutti, entrambe artiste italiane con il quale condivido il fare arte con sensibilità, competenza e passione per l’arte contemporanea. La mia formazione mi permette di tenere corsi per insegnare la lavorazione della lana dal fiocco, appunto, al filo. Ho avuto anche l’opportunità di insegnare feltro allo IED di Cagliari e di essere invitata a importanti convegni tematici.

Io: Negli ultimi lavori, quelli dedicati alle “connessioni territoriali” utilizzi – tra l’altro – la lana della pecora nera di Arbus di cui ti sei occupata in più di un intervento. La scelta dei materiali ha anche un valore simbolico oltre alla funzione tecnica?
PA: Da dieci anni ho eletto la lana della Pecora Nera di Arbus come materiale prediletto. Questa lana ha la particolarità di essere di un nero straordinario. Altro elemento caratterizzante è che questa pecora è una biodiversità di cui si contano appena 4.000 esemplari in tutto il mondo e di queste 2.000 si trovano proprio ad Arbus, paese sardo del sud-Sardegna. Questo paese e il suo territorio hanno una storia importante. Fino agli anni ’60 la sua economia si divideva tra la pastorizia e l’attività mineraria. Le miniere della vicina Bugerru furono il teatro del primo sciopero operaio in Italia e molti dei paesi della regione del Sulcis ebbero un forte impulso dall’attività estrattiva che determinò anche una significativa crescita demografica ed economica. Cessata l’estrazione, però, molte persone, specialmente giovani, emigrarono; così che la pastorizia divenne pressoché l’unica attività da cui le famiglie potevano trarre sostentamento unitamente a una nuova presenza, quella turistica, in un territorio incontaminato ma anche carente di servizi.
Inizialmente andavo ad Arbus principalmente per reperirvi la lana.
Il territorio è un susseguirsi di montagne, colline, piccole piane, mare, paesaggi minerari e, diversamente dal resto della regione, quando vedi animali al pascolo questi possono essere pecore ma anche molte capre. I pastori locali spesso le allevano entrambe e le loro greggi non sono mai solo bianche, anzi spesso sono bianche e nere, oppure solo nere.
Credevo che la Pecora Nera di Arbus, meno performativa della razza bianca, si fosse conservata in questo territorio per affetto e tradizione. Ma la vera ragione risiede nella relazione che si instaura tra le caratteristiche della pecora nera e il suo territorio. Queste conoscenze acquisite negli anni di frequentazione mi hanno indirizzato naturalmente verso una modalità operativa incentrata sulla relazione tra arte, territorio, società in un flusso che riconduce ai cardini dell’arte relazionale.
In questo habitat sono nati almeno due miei grandi progetti: “Il viaggio di un filo di lana” realizzato nel 2019 e “Connessioni territoriali” tuttora in divenire.
Il primo è un progetto immateriale nel quale il filo di lana non diventa opera ma è piuttosto concetto, pensiero, azione dove lo spettatore, se vuole, può prendervi parte. Nel secondo progetto la fibra o, meglio, le fibre sono diventate quattro opere tessili di grandi dimensioni.

Con l’operazione “Il viaggio di un filo di lana” ho realizzato un ordito simbolico su tutto il territorio italiano piegato a diventare, per l’occasione, il mio telaio. In scooter, per 17 giorni ho inviato ai Sindaci delle città che ho visitato qualche metro di filo di lana di pecora nera di Arbus. Attraverso questa operazione tutta l’Italia è stata unita da un filo di lana, che per quanto fragile preso da solo, può creare legami umani e territoriali forti e duraturi. Questo progetto è stato seguito via Facebook da un vasto pubblico che lo ha sostenuto e alimentato in vario modo. Volevo dimostrare che attraverso l’arte si possono generare nuovi punti di vista, nuove prospettive, risposte, connessioni territoriali e umane. Ma è stato evidenziato anche un aspetto sociale legato alle minoranze.

“Connessioni territoriali” invece è un lavoro che si sviluppa su tavole di legno in cui ho composto successioni orizzontali o circolari di lana di Pecora Nera di Arbus, bianca di Mamoiada e di Nurri. Ho posto in relazione fibre di animali di territori diversi. Ho creato una relazione con un’altra fibra animale prodotta ad Orgosolo, la seta, lavorata finemente all’uncinetto a racchiudere il bozzolo da cui prende origine; con la lana rossa, tinta con tecniche naturali, lavorata all’uncinetto e ricamata, associo alluminio, a formare terre e isole, meteore e costellazioni, universi dove la materia esercita attrazione e repulsione. Poi arriva l’accostamento del ferro, in tessere squadrate, ossidate dall’umidità della notte, dalla pioggia, dal vento che leviga, e infine quello della lenza, un tempo filo resistente ricavato da fibre vegetali o animali e oggi di nylon, in un confronto tra materie compatibili e incompatibili, in un sistema ecosostenibile.

Io: Oltre alla lana, impieghi molti filati, fibre e tessuti – nonché materiali – di scarto oppure diventati inutili o superflui. È una scelta etica, filosofica, concettuale o cos’altro?
PA: Nella scelta dei materiali privilegio quelli che hanno un rapporto con la natura, sia animali che vegetali, e quelli disponibili nel quotidiano o non più usati del passato, possibilmente non acquistati, a meno di particolari esigenze. Altra caratteristica, devono avere un’anima.
Studi tessili delle culture di popoli nel mondo mi hanno permesso di conoscere i Boro giapponesi. Si tratta di capi di abbigliamento e per la casa – kimono, pantaloni, coperte, borse – che i pescatori del nord del Giappone confezionavano con frammenti piccolissimi di cotone che cucivano con piccoli punti sashiko.
I Boro racchiudono i “principi estetici ed etici della cultura giapponese, come la sobrietà e la modestia (shibui), l’imperfezione, ovvero l’aspetto irregolare, incompiuto e semplice (wabi-sabi) e soprattutto l’avversità allo spreco (mottainai) e l’attenzione alle risorse, al lavoro e agli oggetti di uso quotidiano”. Da questo incontro la scelta dei materiali è diventata per me una scelta etica e filosofica irrinunciabile che estendo anche alla loro provenienza.
Dalla conoscenza della tradizione dei Boro è nato il “Kimono Boroboro”.
Ho sentito la necessità di immedesimarmi nella vita di un pescatore giapponese che ha bsogno di cucire un abito per coprirsi e a questo scopo utilizza tutto, ogni singolo pezzetto di stoffa. Volevo conoscere ed entrare nel presente di una storia, sentire il sapore e il dolore del passato in contrasto con la condizione di abbondanza, di superfluo del consumismo, che caratterizza la nostra epoca. Per questa operazione/opera ho chiamato a raccolta “i mercanti di stracci” contemporanei, cioè tutte quelle persone che avrebbero potuto contribuire a realizzare il mio progetto. Ho lanciato un appello sul mio profilo FB affinchè chi voleva poteva farmi avere dei pezzi di cotone blu e gugliate di filo dismesse. Per tre mesi ho cucito punto dopo punto minuscoli ritagli di stoffa con gugliate a volte lunghe appena 20 cm, materiali arrivati da tutta Italia. Ho lavorato fino a perdere la sensibilità dei polpastrelli, ma volevo vivere sulla mia pelle questa esperienza, vedere cosa ne avrei tratto. Ho compreso che anche un pezzo di tessuto può avere una sua sacralità. Dipende da come lo usi, dal valore che dai al tuo gesto.
Da BoroBoro in poi ho molti “fornitori” di stracci, fili e materiali. Tra i tanti, un’amica volontaria in un’associazione che si occupa di rifugiati. Tra le attività dell’associazione c’è lo svuotamento di appartamenti che cambiano proprietà. Con il recupero dei mobili, elettrodomestici e altre suppellettili si arredano gli alloggi dei rifugiati, specialmente donne. Spesso in queste abitazioni da liberare si ritrovano i cestini del cucito, del ricamo o dei lavori a maglia, anche tagli e ritagli di qualche donna che probabilmente praticava la sartoria. Da alcuni anni questi materiali raggiungono il mio studio. Fin dalle prime volte, aprire e frugare nei pacchi che arrivavano è stato estremamente emozionante. Ricordo la volta in cui mi portarono una trentina di mutande appartenute al corredo di suore di clausura dei primi del novecento. Fu una folgorazione! Da quelle mutande, nel 2016, nacque l’installazione “Anche il clero porta le mutande” che ho esposto per la prima volta al Paulo Setubal Museum di Tatuì nello Stato di San Paolo e successivamente, con il titolo “Linfe”, nelle Marche e poi a Cagliari. Sedici mutande che ho tinto con le radici di robbia ad evocare il sangue mestruale e “indossate” su supporti sintetizzanti la figura umana, realizzati con rami d’albero, in parte scortecciati con tagli secchi e imprecisi indicanti lo slancio trascendentale che anima i corpi. A terra la parte grossa delle gambe, impiantate nell’argilla, descriveva la dimensione esistenziale di matrice terrestre, ben radicata al suolo, che tenta di elevarsi, farsi essenza, non arrivando mai davvero a trasfigurarsi.

Un altro lavoro nato da ritagli di tessuto e grovigli di fili di ricamo sono “I pezzinni” piccole opere in cui ogni frammento diventa memoria e si eleva a oggetto prezioso. Scarti scampati al macero, all’oblio; recuperati, riuniti, assemblati, cuciti, ricamati in piccole forme diventano sculture dell’anima. Sempre con scarti tessili ho realizzato numerosi libri d’artista. “Graffito” e “Botanical explorations” sono due opere la cui forma e dimensione delle pagine si ispirano alle Lung-Ta, le bandierine di preghiera tibetane. In entrambi i libri, le pagine recano il messaggio di tutti coloro che esplorano la natura, la onorano e la rispettano.

“Tensioni precarie in equilibri precari” invece sono sculture ricavate da parti metalliche probabilmente appartenute a legni naufragati che la forza del mare ha ridotto a frammenti. Le correnti galvaniche hanno procurato piccole fessure in cui affacciarsi per immaginari da ricamare; concrezioni marine formatesi durante la vita nel fondale diventano musa ispiratrice. Li avvolgo con fili di vari spessori, in una tensione ricercata nell’incerto equilibrio dei metalli, metafora evidente della precarietà dell’esistenza.

Io: Quali sono le tecniche che utilizzi per le tue opere? E cos’è il tuo “ricamo contemporaneo”?
PA: Nelle mie opere utilizzo tutte le tecniche che conosco. Le piego alle mie esigenze e spesso tendo a scompigliare le regole della tecnica. Talvolta cerco di operare come non se impiegassi quella tecnica per la prima volta, ad esempio utilizzando gli attrezzi con la mano destra invece che con la sinistra (io sono mancina). In questo modo ottengo dei lavori che sembrano realizzati da chi non conosce la tecnica o da chi ancora la maneggia da principiante. Mi piace molto provare a decostruire il mio saper fare: mi permette di esplorare nuove soluzioni. Capitolo a parte è il ricamo. Mentre con le altre tecniche ho un rapporto di vecchia data, con il ricamo ho sempre avuto un rapporto conflittuale. Più di altre tecniche, infatti, il ricamo tradizionale è estremamente lento e costrittivo per il mio bisogno di spazio; così ho trovato un mio personale modo di praticarlo.
Il mio ricamo contemporaneo è un ricamo spesso di grandi dimensioni e realizzato su superfici inedite come lo skai (o finta pelle) oppure la rete metallica – quella a quadretti di un centimetro per lato – ed anche sulla carta. La carta è la base su cui realizzo molti prototipi di grandi installazioni. Per i fili spesso attingo ai materiali usati dai pescatori reti e sagole poiché questi materiali sono particolarmente resistenti e duraturi. Nel mio ricamo contemporaneo mi capita di includere anche altri materiali che assemblo sulla superficie, in una composizione che può essere un po’ patchwork, intreccio, ricamo e cucito a macchina. Con questa tecnica utilizzo materiali contemporanei per realizzare opere che trattano i temi della contemporaneità, prevalentemente grandi installazioni pubbliche come “Intragnas” e “MigrAZIONI”.

Io: Lavori che affrontano i temi dell’attualità – come appunto l’opera permanente MigrAZIONI. Quali altre sono le tue fonti di ispirazione e come nascono le tue opere?
PA: Spesso i temi attuali sono fonte di ispirazione che si traducono in opere – necessità ma anche contributo, il mio personale, per dire che attraverso l’arte possiamo impegnarci, partecipare, denunciare, proporre punti di vista che vanno oltre il presente.
In quest’ottica nasce l’installazione “MigrAzioni”, un lavoro in cui interpreto gli ostacoli del viaggio verso la libertà, percorso intralciato da barriere personali e sociali. Qui ho utilizzato la tecnica del ricamo contemporaneo per intrecciare significati e significanti. Su una sottile ma robusta rete metallica sono drappeggiati fiori di plastica stilizzati, assemblati e cuciti con la macchina da cucire e a mano. Questa vela non potrà mai trattenere il vento, trasformandosi così nell’immagine di un’assoluta immobilità. Attualmente la vela è installata in una piazza pubblica su un legno che circa 20 anni fa ha traghettato nell’isola i primi profughi provenienti dal nord Africa.
Su vibrazioni emotive universali nasce invece “Intragnas”, opera di arte pubblica commissionata da un Comune isolano per installarla sul muro all’ingresso di una scuola. “Intragnas” parla di emozioni e sentimenti. Un grande ricamo a campiture ampie realizzato su skai con grosse lenze nere e rosse. Al centro è il senso di precarietà in cui l’umanità si sta impantanando. Il contemporaneo fenomeno migratorio se osservato oltre ogni partitismo, nazionalismo, razzismo, fedi religiose opposte, guardato con empatia e rispetto non è altro che il teatro delle emozioni, delle paure, delle, speranze, dei sogni, degli odi, degli amori, delle aspettative tradite e di quelle soddisfatte, dei privilegi, della rabbia, della frustrazione. In questo teatro, se venisse spenta la luce non ci sarebbero bianchi e neri, musulmani e cristiani, migranti ed esuli, ricchi o poveri, belli o brutti, ma solo dei fili luminosi la cui luce si manifesta in tonalità che si riconducono ai sentimenti che provano. E sapete quale è la scena che si presenterebbe ai nostri occhi? Scopriremmo di essere un unico popolo.
Altre volte invece ho un approccio istintuale. Curiosità, emozioni, sensazioni, ricordi sono ciò che fa nascere in me il bisogno di raccontare delle storie. Quando questi stati si incontrano con la materia, l’intangibile diventa tangibile, l’idea diventa forma/oggetto. L’opera che ne scaturisce diventa il mio racconto, a volte anche quello che non sapevo di voler raccontare.

Chi è Pietrina Atzori
Non c’è molto da aggiungere per delineare la personalità ed il lavoro di Pietrina Atzori oltre al ritratto esaustivo che esce da questa lunga intervista. Non mi rimane che segnalare le sue mostre ed i suoi interventi negli ultimi anni:
(2012) “Il Feltro dello Sciamano – sulle orme di Joseph Beuys” – Biella; “OPERE TESSILI DA INDOSSARE” Abilmente – VICENZA. (2013) “INTERSEZIONI” Museo Florestal O.Vecchi – S.Paulo – BRASILE; “Artistic and Altered Books” G.I.L.D.A. Concorso Internazionale – PARMA. (2014) “BORO-BORO” Mostra abiti realizzati con materiali di riciclo – CAGLIARI; “Artistic and Altered Books” G.I.L.D.A. Concorso Internazionale – PARMA. (2015) “BOOK SEEDS” – VIII Festival del libro d’artista –BARCELLONA; “Strati- LAYERS” con Sheila Rocchegiani – VERONA TESSILE – VERONA. (2016) “Reflexões” – Mostra Personale – Sao Luis do Maranhao – BRASILE; “Anche il Clero porta le mutande” mostra personale Museo Historico P.Setubal – Tatuì – BRASILE; “Linfe” installazione Festival Arte Contemporanea NOTTE NERA – SERRA DE CONTI; “Linfe” installazione Alig’Art – EXPO Centro Culturale LAZZARETTO – CAGLIARI. (2017) “Io sono – Arte” – Mostra collettiva Galleria BERGA – VICENZA; “Pensieri duraturi – un punto per volta” – Mostra Personale – ASSEMINI. (2018) HOPING Percorsi visivi sulle migrazioni – Mostra collettiva– CAGLIARI. (2019) VERSO ORIENTE – Mostra collettiva – Centro Giovanni Lilliu – BARUMINI; BIXINAU – Residenza e Mostra arte contemporanea Convento Santa Rosa – NURRI; 20X20 SEGNI – Mostra collettiva – ORISTANO; CONNECTING PEOPLE – Mostra arte contemporanea – MAMOIADA; INVENTARIO 20 – Biennale FiberArt – Museo MURATS – SAMUGHEO.
INSTALLAZIONI ED ALTRI PROGETTI: (2010) “Cuncambias Festival”, Direzione Artistica – Creazione e installazione Vertical Garden – SAN SPERATE (CA); “Festival Marina Cafè Noir”, INSTALLAZIONE PERMANENTE GIARDINO VERTICALE contenitori in feltro di lana sarda – CAGLIARI. (2011) “Festival Posidonia”, INSTALLAZIONE PERMANENTE GIARDINO VERTICALE contenitori in feltro di lana sarda – CARLOFORTE; “Felt United” Parco delle pietre sonore – Pinuccio Sciola a San Sperate. (2012) “Festival do Castanho – Montalegre PORTOGALLO. (2017) “INTRAGNAS” trittico 3,2×1,90 Via Portotorres – ASSEMINI. (2018) “SUL FILO DEL TEMPO” Installazione 50’ anni Muralismo – SAN SPERATE; “MigrAzioni” Installazione ricamo contemporaneo – SAN SPERATE.
PARTECIPAZIONI E COLLABORAZIONI: (2017) Murales “FABULA” di Rosaria Straffalaci – ASSEMINI; “Andando via” omaggio a Grazia Deledda – Partecipazione all’Asta di opere d’arte organiz. Archivio Maria LAI e Galleria Macca di CAGLIARI; “PARTITURA PER AGO E FILO” Pietrina Atzori e Gianluca Verlingieri – CUNEO. (2018) Murales “PUNTO GAMMA” di Rosaria Straffalaci – VILLA SAN GIOVANNI – RC. (2019) BIXINAU Residenza internazionale arte contemporanea- a cura di IVYNode – NURRI. (2010-11-14) Expo “Filo, lungo filo un nodo si farà” ed. 2010, Villaggio Leumann – TORINO; (2011) CONCORSO: “PURA LANA SARDA” – Concorso di idee per la realizzazione di prototipi in Lana di Pecora Sarda (8° clas.) promosso da Provincia di Sassari – CNR Ibimet Sassari e CCIAA Sassari – SASSARI. (2012) “Geo&Geo” su RAI 3 RADIO TELEVISIONE ITALIANA. (2019) Collaborazione alla stesura del disciplinare sulla lana per MARCHIO PECORA NERA DI ARBUS.
PERFORMANCE E VIDEOARTE: (2016) “POSEIDONIA” performance di e con Pietrina Atzori e Rosaria Straffalaci – porticciolo San’Elia – CAGLIARI. (2017) “SINTESI” performance di e con Pietrina Atzori, Rosaria Straffalaci, Mixa Fortuna e Mario Massa – Festival Sant’Arte I°ed. – Fondazione Sciola – SAN SPERATE. (2018) “AEQUA NOX” performance di e con Pietrina Atzori e Rosaria Straffalaci – Filanda Cogliandro a VILLA SAN GIOVANNI – RC; “HUMAN SIZED BOUQUET” performance di e con Pietrina Atzori e Rosaria Straffalaci – Festival Sant’Arte II°ed.– Fondazione Sciola – SAN SPERATE
PREMI: (2010) “Filo, lungo filo un nodo si farà”, Villaggio Leumann – TORINO; (2013) 1° premio “G.I.L.D.A. Concorso Internaz. Artistic and Altered Books” – PARMA. (2019) Premio Biodiversità “Concorso Internaz. “Trame a Corte – Cosa mi metto in testa” – PARMA.

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