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Forme dell’assenza: gli angeli di Lory Ginedumont

Succede nell’esistenza di ognuno di noi di sperimentare (ahimè) almeno una volta l’annichilimento del dolore.

Capita credo a tutti che proprio allora, d’un tratto, guardandoci intorno ci si senta profondamente soli. Non perché manchino gli affetti e gli amici ma perché, perduti nel mare doloroso in cui ci troviamo a navigare, ci rendiamo conto della distanza tra noi e l’altro; per quanto profonda sia l’empatia e i sentimenti che ci legano gli uni agli altri, il dolore – soprattutto del distacco da coloro che amiamo – è indubbiamente una prova di cui siamo chiamati a fare esperienza in solitudine.

Sarà il tempo, poi, a ricondurci in porto ma quanto a quello spazio deserto intorno a noi di cui abbiamo per la prima volta preso coscienza, di quello purtroppo resterà traccia e lentamente sarà la memoria a diventare l’unica nave a solcarne le acque.

In quel lembo di mare ritroveremo a volte con malinconia, altre nella tristezza del rimpianto e, fortunatamente, molte altre ancora nel conforto tenero e gioioso del ricordo, ciò che nello scorrere dei nostri giorni abbiamo vissuto, coloro che abbiamo perduto, la narrazione (forse un po’ sfumata e rivisitata) degli eventi che hanno abitato il tempo che abbiamo sin qui trascorso su questa terra. In questo spazio ibrido che la nostra coscienza ci restituisce come testimonianza di una vita che ci appartiene tanto quanto ci sfugge, nasce l’installazione di Lory Ginedumont.


Mi sono spesso chiesta che forma abbia l’assenza. È innegabile che nella familiarità di un gesto, nell’odore evocativo che esce da una cucina la domenica mattina, nelle note di una canzone che tormentava l’estate di molti anni fa e che cogliamo per un attimo di sfuggita tra le corsie del supermercato, noi ritroviamo un volto, un istante, una voce che benché non più qui ora, scopriamo essere sempre con noi, viva – seppur di altra sostanza, in un’altra frequenza.

Fatto sta che a volte questa ‘assenza’ ci risulta così presente da avere la sensazione di poterla quasi toccare, interrogare, abbracciare. In questa minuscola fessura tra la realtà e il mistero, si inserisce l’alchimia magica dell’arte che affida alle mani di Lory Ginedumont l’onere di ri-cucire questo strappo, di riannodare il filo tra assenza e presenza.

Nell’atto creativo in cui attraverso il medium tessile l’artista dà forma alla prima trasformandola nella seconda, l’arte assolve anche alla sua funzione catartica. Cucire è, infatti una pratica lenta e meditativa, fatta di gesti che nella ripetizione sempre uguale a se stessa ci concedono il lusso di un tempo per intrecciare i fili del nostro sentire con quelli della nostra memoria.

Una dopo l’altra le sue figure assumono la forma di angeli, entità sospese al di fuori della portata del tempo, a metà tra la sostanza eterea dello spirito ed una tangibilità che li rende potenzialmente visibili allorché chiamati a mediare – messaggeri la cui esistenza è ammessa in tutte le religioni – tra l’uomo e la divinità, tra la dimensione tutta terrena della nostra conoscenza e l’inconnu cui la consapevolezza della nostra fragilità conferisce a seconda delle culture e delle generazioni, differente forma e nome.

Punto dopo punto, la memoria costruisce pazientemente un angelo dopo l’altro finché quello spazio ibrido e vuoto si popola di presenze fatte della stessa sostanza del nostro vissuto – emozioni, istanti, affetti, ricordi – e solo allora, nel riconoscere che nulla di ciò che è stato è perduto ma è vivo e inesorabilmente e per sempre parte di noi, l’arte diventa anche consolatoria e di più, universale.

Quella che l’artista ci consegna è la riflessione sul “possibile” che trova nella libertà della creazione il superamento del confine effimero ed illusorio del vero e del reale.

Ph.credit Diana Lapin

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