A condurmi fino ad Elisabetta Cameli e a questa intervista è stato “Nero”, un suo piccolo lavoro allestito nell’ambito di una collettiva a gennaio. La cifra dolorosa che l’opera evocava, la profondità luttuosa del tono assoluto, il contorcersi quasi percepibile della materia in quello che leggevo come un estremo tentativo di evasione da un buio inesorabile, di fuga dall’attrazione dell’abisso alludevano alla tensione sempre in fieri tra luce e ombra che permea – più o meno in superficie – l’universo interiore.
Mi pareva sottintendere una ricerca di speranza contro ogni aspettativa possibile, il che mi restituiva una dimensione incerta e tormentata dell’esistenza, l’onere faticoso di conciliare la consapevolezza della finitezza della nostra umanità con la forza misteriosa della vita.
Partendo da qui sono andata alla scoperta dell’artista, le ho chiesto di portarmi dentro la sua arte che, seppur così intimamente legata al suo vissuto, all’esperienza individuale e quotidiana, riesce a trasformarsi in una riflessione collettiva, partecipata, universale.

Io: Come sei approdata all’arte tessile?
EC: Il mio approdo all’arte tessile è avvenuto dopo un lungo percorso eterogeneo e nasce da una sorta di intuizione artistica, da una mancanza.
Ho un master in fotografia e in quel momento mi stavo dedicando ad una fotografia più sperimentale, in cui l’intervento manuale era significativo, ma ciò non mi bastava, avevo bisogno di un rapporto corporeo maggiore con le mie opere d’arte.
Durante la preparazione di una mostra ebbi l’intuizione, la necessità di inserire il filo nei miei lavori e questo aprì la strada alle successive sperimentazioni in cui fotografia e filo comunicavano all’interno del Libro d’Artista. Mi diressi successivamente verso la stoffa e le tecniche tessili, avendo già in famiglia la tradizione del ricamo e del merletto. Nacque quello che mi piace definire una storia d’amore; un amore che mi condusse sempre di più verso lo studio e la scoperta della Fiber Art, per me fino ad allora sconosciuta.
Dopo tutto il mio percorso accidentale, personale, le strade sbagliate e le deviazioni, arrivare alla Fiber per me è stato come trovare un punto, una voce che sentivo pienamente mia e che mi permetteva di urlare fortissimo rimanendo in silenzio, di cucire e mettere insieme i miei mille mondi.
Io penso che nessun’altra forma d’arte avrebbe potuto avere la capacità di fare questo; come diceva la Bourgeois : “The needle is used to repair damage. It’s a claim to forgiveness”.

Io: Quali sono le fonti di ispirazione del tuo lavoro?
EC: Le fonti di ispirazione nel mio lavoro sono molteplici, a partire dagli innumerevoli artisti che mi hanno ispirata nella mia ricerca, soprattutto Magdalena Abakanowicz che mi ha insegnato la giusta tensione e quale direzione debba avere un lavoro artistico; poi ci sono Lydia Benglis, Eva Hesse, Grau Garriga e tutto l’Informale; poi artisti contemporanei come Hanne Friis, Chris Soal, Aude Franjou e Bosco Sodi, dei quali ammiro la carnalità, la matericità e la dimensione organica.
Ma c’è anche tanto cinema a portare in me riflessioni e suggestioni visive: Tarkovskij, Kronenberg, Julia Ducournau, Bergman, per citarne alcuni.
La lettura sia di romanzi di Calvino, Morante ed altri, ma anche di saggi. A volte basta solo una frase per far nascere riflessioni più ampie. Avendo studiato Lettere Moderne la parola è fonte molte volte di mille significati concatenati tra di loro. Anche la classicità e il mito ritornano come fonte di ispirazione importante.
Amo molto la danza contemporanea – per esempio Pina Bausch – che attraverso il movimento inspira in me immagini che cerco di riportare nel mio lavoro.


Io: Quali sono i temi che indaghi attraverso la tua ricerca artistica?
EC: I temi nei miei lavori sono multiformi, cerco sempre di lavorare di sub-toni. Generalmente i miei lavori partono da due ossessioni principali: i materiali aggettanti che io chiamo “Emersioni” e la dimensione organica. Le Emersioni sono elementi in bilico tra il dentro e il fuori e ricorrono frequentemente nel mio lavoro, poiché sono per me elementi simbolici/allegorici che portano innumerevoli significati e suggestioni, rappresentano delle soglie, delle linee di confine. La loro dimensione polisemica mi permette di esplorare i temi per me fondamentali: il rapporto tra l’interno e l’esterno, tra il corpo visibile e invisibile, tra la vita e la morte. Sono contemporaneamente elementi di nascita e di perdita.

Il tagliare e il far uscire mettono in luce la difficoltà del separarsi e dell’esistere; riecheggiano in noi e nel nostro immaginario e sono legati a momenti di ri-nascita ma anche di spazio vuoto, di crescita ma anche di costrizione, di malattia e guarigione.
La dimensione organica rappresenta la natura, il movimento, la carnalità, la trasformazione, la fluidità dell’identità, la base stessa dell’esistenza. Si manifesta nel mio lavoro in forma di pelli, tessuti interiori lacerati, frammentati, mancanti, vulnerabili e allo stesso tempo tenaci. Elementi che dispiegano l’interno di un corpo in continuo divenire.
In ogni caso, al di là delle mie motivazioni, lavorando con il percettivo non c’è mai un significato univoco e solo alla fine l’opera mostra i suoi significati molteplici, aprendo la visione a diverse sensazioni, tutte legittime, e andando a creare mondi possibili.

Io: Come nasce una tua opera?
EC: Le mie opere nascono generalmente da immagini che mi piovono dentro da cui poi si dipanano riflessioni filosofiche/sociologiche sulla vita. Suggestioni visive derivanti dal mio humus culturale e dal mio vissuto personale, il quale è sempre legato alla genesi delle mie opere e che funziona come filtro attraverso il quale il messaggio si universalizza.
Da qui poi parte la progettazione attraverso schizzi, ma soprattutto sperimentazioni in cui metto in pratica ciò che in quel momento è solo nella mia mente. Essendo una pratica sperimentale alcune opere nascono da errori o da intuizioni immediate in cui la casualità diventa parte integrante del processo creativo.


Nella genesi dell’opera è importantissimo il rapporto con i materiali, essi rappresentano dei punti di partenza, ed anche il rapporto corporeo con l’opera stessa. L’utilizzo di determinati materiali piuttosto che altri mi permette di veicolare al meglio i temi per me fondamentali, introducendo elementi distintivi che mi danno la possibilità di scendere simbolicamente nelle viscere del significato profondo dell’opera.
Prima nasce l’immagine, la sensazione primigenia e poi si dispiega tutta la struttura di pensiero, di reference, di studio che dà forza e sostanza all’intero lavoro.

Io: BURIAL CLOTHES è un corpus di lavori di cui hai recentemente esposto un pezzo nel progetto internazionale XS PROJECT. Mi racconti di cosa parla questa serie di opere?
EC: Burial Clothes è un lavoro molto intimo legato al mio vissuto personale (che è stato particolarmente accidentale e difficile), ma che cerca di parlare in maniera universale. Il corpus va alla radice dei sommovimenti interiori che guidano il percorso di crescita e di trasformazione dell’essere umano.
Si basa sul perenne equilibrio tra la leggerezza e la consistenza, tra la forza e la vulnerabilità che caratterizzano l’esistenza umana. Il rapporto tra il merletto, la stoffa e l’emersione delle corde e non, cerca di dispiegare in maniera simbolica il difficile percorso verso la propria identità e l’autodeterminazione.

È un lavoro che parla di identità, di strade sbagliate, di depressione, di deviazioni ma anche di resilienza di coraggio cieco, attraverso un iter segnato da conflitti, da lotte interiori, da ferite e lacerazioni, ma anche da moti di crescita, guarigioni ed emersioni non sempre facili da realizzare.
Il nome proviene dall’usanza delle antiche civiltà di avvolgere i morti in tessuti e preservarne il corpo nel suo viaggio verso l’aldilà. Ho voluto riprenderne metaforicamente l’ “usus” riportandolo ad una dimensione vitale, in cui i tessuti, come se fossero pelli che seppelliamo per permettergli di rigenerarsi, diventano delle tracce del nostro percorso conservandone la memoria, le radici e conducendoci verso il nostro vero io.
Una sorta di diario intimo in cui il rapporto tra forze divergenti ci consegna una consapevolezza sul nostro essere e ci permette di autodeterminarci oltre ogni tipo di costrizione e di aspettativa familiare e sociale.


Io: A cosa stai lavorando in questo momento?
EC: In questo momento porto avanti i tessuti funerari e mi dedico contemporaneamente altri due corpus di lavori. Uno è incentrato sulla scultura, i miei lavori sono già tridimensionali e quindi credo che l’evoluzione verso la scultura fosse uno passo necessario e che da tempo stavo cercando di compiere. L’altro ha sempre una dimensione scultorea, ma è più legato alla parete e rappresenta la mia necessità di abbandonare la tela, di togliere peso per dirigermi verso materiali sempre più leggeri e fragili e usare tecniche differenti.
Il corpus scultoreo è incentrato esclusivamente sulla dimensione femminile in particolare quella uterina, cioè la poetica dello spazio cavo che si lega a simbologie primitive. In esso ritroviamo le emersioni, ma anche forme più concluse e protettive.
L’altro è un inno alla materia legato alla carnalità, alla donna e alla percezione che se ne aveva durante l’età classica e l’avvento del cristianesimo, e cerca anche di interrogarsi sull’impermanenza, la fragilità della vita e la stratificazione del tempo.
Questi lavori hanno ancora bisogno di poter respirare per essere concettualmente rafforzati, ma a causa di un evento personale estremamente significativo, mi sento in una fase di grandi rivolgimenti e di acquisizione di una maggiore consapevolezza nella mia ricerca artistica.

Chi è Elisabetta Cameli
Elisabetta Cameli è nata a Bologna dove si laurea in Sociologia e studia Lettere Moderne. Dopo gli studi si dedica all’arte, ottenendo un Master di Fotografia nel 2011, presso la “Scuola Romana di Fotografia”.
Tornata a Bologna espanderà la sua formazione artistica con corsi e workshop e sperimenterà una sua poetica introspettiva e personale in cui i processi analogici di stampa si incontrano con il filo. Studierà legatoria con Cristina Balbiano D’Aramengo, per la creazione di libri d’artista che la condurranno al medium tessile, già presente nella sua tradizione familiare. Approfondirà questa ricerca attraverso lo studio del ricamo classico e del merletto a Bologna con Anna Rondelli.
Da questi si evolverà una sua ricerca, legata al suo vissuto personale, nella quale attraverso l’intreccio di tecniche diverse, cerca di creare un racconto che tocchi la sfera intima dei sentimenti umani, il corpo nella sua dimensione più organica e interiore, e i percorsi di identità e memoria. Cerca di andare alla radice delle sensazioni umane attraverso un lavoro allegorico simbolico che ci restituisca la base stessa dell’esistenza.

Tra le mostre recenti la collettiva alla Roots Art Gallery di Pisa, a cura di Nadzeya Naurotskaya Roots Art Gallery, Pisa; XS Project, BAF Bergamo, a cura di Barbara Pavan; a Palazzo Tolomei, Firenze, curata Lucrezia Caliani; a Villa Verlecchi, Ravenna, a cura di Maria Giovanna Morelli, Villa Verlecchi, Ravenna; Charly Art Studio, Bologna, a cura di Chiara Mascardi; Arteria, Bologna, curata da Chiara Ioli. Tra le mostre personali segnaliamo Silente Sav, curata da Anna Legnani e Lucrezia Caliani a Val di Sieve.


IMMAGINE DI COPERTINA: Silent Journey, installazione site specific (durante la residenza Silente), merletto a macchina e fiber emballage.
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