Rosita D’Agrosa

Rosita D’Agrosa (1989) si laurea in pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze dove completa la sua formazione artistica, vincendo una borsa di studio alla Fondazione Il Bisonte in stampa e grafica d’arte. Durante gli anni accademici è ospite di diverse residenze artistiche in Spagna nello specifico a Lleida, Erill la Vall e ad Arenys de Munt.

La sua ricerca artistica è in continua sperimentazione e esplora diversi medium. Riprende tecniche tessili appartenenti alla sua storia familiare, utilizzandole come linguaggio espressivo nelle sue opere nell’intento di restituire poeticità all’esercizio tecnico di ago e filo. La sua poetica mette in evidenza una personale ed intima dimensione femminile, frutto di un ragionato studio del corpo femminile e di un’analisi del cambiamento a cui l’essere umano è sottoposto. Vive e lavora a Firenze.

Io: Rosita, perché hai scelto ago e filo (e non solo) per esprimerti?

RDA: La scelta di questi strumenti, inizialmente, è stata inconscia probabilmente perché la mia famiglia ha delle profonde radici nella cultura tessile. Fin dall’infanzia ago e filo mi hanno da sempre accompagnata, utilizzo il termine accompagnare perché sono stati dei compagni con i quali non mi sono mai sentita sola, con i quali ho tessuto, raccontato e cucito metaforicamente la mia poetica finora.

Tempo fa scrissi che da bambina quando avevo la febbre molto alta, durante il delirio, ricordo particolarmente alcuni dettagli delle mie allucinazioni: c’era sempre un rocchetto di filo nelle visioni, mi sentivo disorientata e quell’oggetto mi faceva sentire in pericolo, a disagio. Inoltre sentivo un odore che faccio fatica a descrivere ma non so perché l’ho sempre associato all’odore di un agrume e non so neanche in questo caso di che tipo di agrume potesse trattarsi, era aspro, ricordo che si trasformava da essenza a sapore per confondersi e confondermi ulteriormente. C’era un momento in cui prendevo consapevolezza di tutto ciò che mi sarebbe accaduto di lì a poco: il rocchetto, l’odore e poi una voce, la voce di una donna che sentivo rimbombare in tutto il mio piccolo corpo – potevo sentirne l’eco dalla testa alla pancia e poi dalla pancia alla testa; non ho ricordi di quale fosse la parola, era soltanto una parola, che in loop mi tormentava.

Al mio risveglio, casa mia ne é sempre stata piena, alla sola vista di un rocchetto di filo, dell’uovo di legno per rammendare i calzini, delle forbici, degli aghi e della Singer nera a pedali mi sentivo turbata nonostante fossero gli strumenti con i quali io giocavo quotidianamente, erano i miei giocattoli. Era strano. Poi passati uno o due giorni non potevo fare a meno di riprendere in mano ago e filo, di ricominciare a giocare con i miei giochi, così dopo aver chiarito ogni forma di equivoco ricucivo la fiducia, ricostruivo il legame perso durante quelle visioni. Nel corso degli anni ho litigato molte altre volte con il famoso rocchetto, purtroppo mi sfugge il giorno o l’anno in cui abbiamo smesso. Alla fine l’ho perdonato e forse ho perdonato anche me stessa.

Oggi accade che non sono in grado di parlare a me stessa e agli altri se non con il linguaggio del mio rocchetto di filo.

Odi et amo, rete metallica e filo di cotone, 100×16 cm, 2020

Io: Quanto è autobiografico il tuo lavoro?

RDA: È  interamente autobiografico. Con il mio operare tento di  trasformare  la vita ordinaria, fatta di oggetti, accadimenti, pensieri ed emozioni, nel ritratto di un’intimità libera e profonda.

C’è tutto il mio sentire, il mio dolore, la mia poetica riguardo l’essere donna e donna del sud, artista e figlia unica. È una narrazione metaforica di una sensibilità rivolta al mondo interiore, che si manifesta in immagini ed oggetti che ritraggono e fanno del  mio corpo il cardine della mia ricerca. Il processo parte da un vero e proprio scavo nella carne per poi portare alla superficie delle tematiche legate alla scoperta della sessualità, le mestruazioni, l’abbandono, il dialogo con l’Altro, la repressione e la conseguente espressione della propria natura.

Episodi familiari e personali, come espressioni figurate, sono i punti di partenza  che  sfrutto attraverso il filtro dell’arte e riscrivo per ridare voce e riscattare il doloroso percorso atavico delle donne della mia famiglia. Per quanto il mio passato sia stato doloroso, operare attraverso  l’arte mi permette di essere l’anello che spezza la catena di una lunga storia fallimentare, ed è proprio portando allo scoperto queste tematiche private ed intime che ho capito di quale messaggio farmi carico e quale poetica sviscerare per poter restituire, con indulgenza, ciò che ho con immensa gratitudine ereditato per essere ora la persona e l’artista che sono.

Io: Medium e tecniche tradizionalmente legate all’universo femminile. Quanto sono centrali i  temi legati al femminile nella tua ricerca artistica?

RDA: Anche questo aspetto è legato alle mie origini: oggetti e pratiche tessili dell’ambiente domestico da sempre relegate ad un mondo femminile sono i medium che ho scelto di ri-utilizzare  per  tradurre, riscattare, provocare, porre l’accento con tono ironico e fare di queste emblemi della sacralità femminile della mia poetica. Essendo il mio lavoro strettamente legato alla sfera personale e familiare la scelta di utilizzare la tecnica del ricamo e del crochet, l’utilizzo di tazzine, piattini, pannolini, portacipria e posate che sono appartenute alle donne della mia famiglia, che quindi hanno già un loro vissuto e una loro storia, è un valore aggiunto. Il mio intervento consiste nel riscrivere una nuova storia che si fa carico della responsabilità di raccontare di queste donne: figure cardine invisibili, date per scontate e  impossibilitate alla scelta.

Io: Parole e ricamo: mi racconti il progetto JAULAS PARA PENSAMIENTOS?

RDA: Nella serie “Jaulas para pensamientos”, letteralmente “gabbie per i pensieri”, é la parola l’oggetto della ricerca. Parola intesa come “espressione grafica” del codice linguistico che permette al significato del contenuto scritto di rimanere immutabile e  immobile nel corso del tempo. Proprio per la sua capacità di non perdere ma di acquisire importanza la parola scritta diventa un “deposito” nel mio immaginario. Analizzando il  concetto di nota, appunto e annotazione ho tratto una semplicissima e banalissima riflessione: ci si annota tutto ciò che deve essere ricordato, che quindi non deve essere dimenticato e che è importante.  Questo progetto non a caso è nato nel 2020 durante il periodo del lockdown, momento in cui tutti siamo stati costretti all’isolamento e al distanziamento sociale a causa della pandemia ed è stato realizzato con l’unico materiale che avevo a disposizione in quel momento: la rete metallica, sulla quale come esercizio  meditativo e terapeutico ho iniziato a ricamare i miei pensieri, i miei sentimenti, tutto ciò che in quel momento era represso ed intrappolato. Trasformando quella tessitura in un dono per l’Altro ho dato  vita a queste gabbie leggere, aeree, fiorite, dalla forma  di  contenitori di messaggi (in bottiglia) da inviare alle persone amate: “ MI MANCHI” ,“TI PENSO”, “ODI ET AMO”, “NON AVER PAURA” ,“DIVENTA CiO’ CHE SEI” “AD MAIORA!” sono tutti brevi messaggi di testo come gli  sms inviati dal cellulare, rivolti a colmare virtualmente il grande vuoto che l’isolamento ci ha costretti ad assaporare.

Questa ricerca nel corso degli anni ha subito qualche cambiamento, all’interno delle Jaulas negli ultimi lavori inserisco elementi grafici, che vanno ad articolarsi in maniera più complessa e meno intuitiva  con i messaggi ricamati, ricreando all’interno delle gabbie una sorta di archivio emozionale meticolosamente tessuto.

Io: COLAZIONE SULL’ERBA è un progetto declinato attraverso diversi elementi e stratificato. Come è nato e come si è sviluppato questo lavoro?

RDA: La serie “Le colazioni sull’erba” nasce  come un chiaro riferimento a due opere – “Le dejeuneur sur l’erbe” di Manet e la surreale “Colazione in pelliccia” di Meret Oppenheim – da entrambe le opere ho estrapolato gli elementi che hanno creato rottura e dato una nuova chiave di lettura all’mondo dell’arte rendendole opere rivoluzionarie. Per l’opera di Manet l’omaggio al titolo era una facile e riconducibile allusione allo scalpore che aveva suscitato, mentre per l’”oggetto” della Oppenheim il curioso episodio che le ha permesso di realizzare quest’opera e la reazione di repulsione del pubblico, alla vista di una tazzina ricoperta di pelliccia, mi hanno fin da ragazzina entusiasmato ed è proprio con il pretesto di ricreare la sensazione di spiazzamento o di disagio, di desiderio o di avversione che le mie “colazioni sull’erba” sono nate. Si presentano come microcosmi all’interno di piccole cloche da petite patisserie, sono estratti di piccole storie, intime storie: tazzine con all’interno un utero ricamato intitolato FIG.A, specchietti portacipria con il ricamo di una vulva con la citazione latina “Nosce te ipsum” (conosci te stesso), piattini con all’interno elementi organici talvolta associati a spine che lo spettatore è invitato ad ingurgitare. Queste piccole composizioni eleganti senza mai voler essere volgari, si presentano come un tentativo di parlare apertamente e senza veli di un universo femminile noto e spesso dato per scontato, accompagnato da una ricercata  provocazione sulla condizione attuale e passata della donna. La raffigurazione del corpo, delle vulve, uteri e di orifizi è emblematico in questo progetto, così come l’intervento tessile, l’utilizzo di oggetti domestici, femminili ,ma soprattutto degli objects trouveé appartenuti alla mia famiglia per mezzo dei quali apro una polemica contro le istanze familiari e sociali dalla natura mortifera prendendo posizione di fronte alla scelta di comunicare in maniera autentica ciò che è lecito o meno sentire, provare, intuire e raccontare di sé.

Colazione sull’erba

Io: MUTATIS MUTANDA – corpus di opere iconico e ironico – che cosa rappresenta e cosa veicola?

RDA: Mutatis mutanda  è un omaggio alla sacralità e alla potenza  del corpo femminile.  Il titolo del progetto prende ispirazione,  dal motto latino “mutatis mutandis”  letteralmente “mutate le cose che sono da mutarsi“,  ironizzandone il significato  l’ho trasformato in Mutatis Mutanda, da qui  l’intuizione di utilizzare l’icona delle Mutande, termine che deriva dal latino mutandae  (gerundivo di mutare).

E’ una serie, in  corso d’opera,  composta da 28 sculture tessili, che rappresentano delle mutande, una per ogni giorno del ciclo mestruale  ed  ognuna omaggio alla metamorfosi, al cambiamento e alla trasformazione femminile. Icona di una scansione temporale la mutanda custodisce storie di intimità, scoperte sessuali, fioriture e sfioriture di un corpo che si manifesta per questa sua potente peculiarità e sacralità.

Io: Cosa sogna Rosita D’Agrosa – l’artista?

RDA: Rosita D’Agrosa l’artista sogna  in grande, di poter esporre le sue opere in tutto il mondo e di raggiungere con la sua poetica vette altissime!

Rosa rosae rosae rosam rosa rosa rosae rosarum rosis rosas rosae rosis, rete metallica e filo di cotone, 100×19 cm, 2020.

Io: A cosa stai lavorando in questo periodo?

RDA: In questo periodo sto lavorando alla produzione di nuove opere in piccolo formato, che andranno ad integrarsi nel progetto JAULAS PARA PENSAMIENTOS. Realizzerò  una grande istallazione a parete che sarà composta da una numerosa serie di gabbie contenenti messaggi d’amore, incoraggiamento e di speranza rivolti a se stessi. L’immagine metaforica che intendo ricreare è quella del messaggio lasciato sui post-it attaccati al frigo, sullo specchio, al computer, alla porta di casa che scriviamo a noi stessi per ricordarci qualcosa di importante da tenere a mente continuamente, da perseguire, da leggere e rileggere per trasformarlo in un mantra, una motivazione e un obiettivo. 

Ti penso, rete metallica e filo di cotone, 18,5x24x6, 2021

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